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L’incerta posizione internazionale della Bulgaria in ambito energetico

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Con il seguente articolo verranno descritte le dinamiche delle relazioni internazionali in ambito energetico della Bulgaria, divisa tra interessi europeistici/atlantici – concretizzati con la partecipazione al progetto Nabucco – e russofili, tra possibile adesione al South Stream ed altri progetti. Dopo il trend delle relazioni internazionali sotto il governo socialista, nell’articolo sarà descritta la tentata inversione di tendenza del nuovo governo conservatore bulgaro.

 

In questo articolo cercheremo di fare il punto sul ruolo strategico della Bulgaria nella mappa delle relazioni energetiche internazionali e nelle rivalità russo-europee in questo settore.

 

La Bulgaria, vista la sua posizione geografica, è il punto di transito ideale – se non già obbligatorio – per entrambi i progetti rivali appoggiati rispettivamente dall’Unione Europea e dalla Russia: è dunque lineare comprendere che avere buoni rapporti con la Bulgaria significa minimizzare i problemi nella realizzazione del proprio gasdotto in questa data area geografica. Inoltre, bisogna ovviamente notare che tutto ciò dà alla Bulgaria stessa un peso strategico non da poco, che il Paese può sfruttare in una logica di do ut des onde ricevere vantaggi dall’una o dall’altra nazione di turno.

 

Quest’ultimo principio pare sia stato alla base delle azioni del governo bulgaro in carica dal 2005 al 2009, guidato dal leader del Partito Socialista Sergei Stanishev. Sotto la guida di questo uomo politico, la Bulgaria ha cercato di mantenere una linea mediana tra l’atlantismo legato al progetto Nabucco e la vicinanza a Mosca con la partecipazione al progetto South Stream con la partnership per la costruzione di un impianto nucleare e un oleodotto.

 

Dobbiamo ricordare che tramite la BEH (Bulgarian Energy Holding), la compagnia nazionale bulgara dell’energia, Sofia partecipa sin dal 2002 al consorzio fondatore del progetto Nabucco.

Il primo accordo di rilievo nel quadro di questo progetto è arrivato nel 2008, quando l’Azerbaijan ha dato il via libera per fornire il proprio gas alla Bulgaria ed al consorzio del Nabucco. La Bulgaria ha inviato i propri rappresentanti a tutti i successivi meeting di rilievo dei membri del progetto, ospitandone anche uno nella capitale Sofia tra il 24 ed il 25 aprile del 2009. Ha anche  firmato l’accordo intergovernativo tra i leader dei Paesi coinvolti – Turchia, Romania, Ungheria e Austria – il 13 luglio 2009, cerimonia alla quale erano presenti Juan Manuel Barroso in persona, assieme al Commissario Europeo all’Energia Andris Piebalgs e due rappresentanti del governo degli Stati Uniti. La Bulgaria è stata la seconda a ratificare l’accordo, il 3 febbraio 2010, ormai non più guidata dal governo socialista, ma da quello conservatore di Boyko Borisov: da questo punto di vista, i due governi hanno avuto una certa continuità.

Conviene un attimo però tornare al periodo Stanishev per avere il quadro completo della situazione: con un’occhiata veloce alle date, potrebbe sembrare che il governo socialista, impegnatosi tra l’altro notevolmente per l’ingresso della Bulgaria nell’Unione Europea (operazione, come noto, riuscita con l’allargamento del 2007) avesse mantenuto il Nabucco nella propria agenda energetica in un’ottica più generale di “convenienza europeistica”. Invece, proprio il 18 gennaio 2008 il governo Stanishev firmava con Mosca l’accordo preliminare per la partecipazione al progetto di gasdotto South Stream, di fatto aggiungendo la partecipazione bulgara in un secondo progetto di gasdotto alternativo. Lo stesso 2008 si è rivelato particolarmente prolifico per gli accordi col Cremlino, visto l’estensione della cooperazione anche al settore nucleare, con la ripresa della costruzione dell’impianto di Belene (progetto datato 1987): la BEH si impegnava a riprendere il progetto, in una partnership con la russa Rosatom e la tedesca RWE – partecipante con la “modica” cifra di 1,2 miliardi di euro. Non solo: ancora nel 2008 la Bulgaria entrava con una partecipazione del 24,5% nel progetto dell’oleodotto Burgas – Alexandropolis, pipeline posseduta al 51% da una cordata russa composta da tre imprese ben note nel settore, ossia Rosneft, Transneft e Gazprom Neft. L’oleodotto dovrebbe trasportare il petrolio russo con una tratta alternativa a quella del Bosforo, partendo da Novorossisk e passando per il porto bulgaro di Burgas, per poi arrivare in Grecia a Alexandropolis.

Il piano del governo bulgaro era dunque più che evidente: sfruttare la propria posizione energetica per ottenere i maggiori benefici possibili dai due ingombranti partner politici ed economici coinvolti, ossia UE e Russia, senza concentrarsi troppo sull’effettiva sostenibilità dei progetti per le finanze del Paese né su eventuali conseguenze politiche di lungo periodo. Se i vantaggi ottenibili dal supporto all’Unione sono più che evidenti, quelli provenienti dal “buon vicinato energetico” con Mosca non sono comunque celati, ricordando in quale modo la Bulgaria sia dipendente dal punto di vista dell’energia dalla Russia: nel 2007, ad esempio, Sofia importava dalle lande dei Rus “appena” il 92% del suo fabbisogno di gas, senza dimenticare che la raffineria Neftochin sita a Burgas, la più grande di tutti i Balcani, è di proprietà della russa Lukoil. Aggiungiamo inoltre che l’impianto nucleare di Kozloduy, l’unico attualmente funzionante sul territorio bulgaro, è alimentato con materiali russi. Si noti dunque come la vicinanza a Mosca non è solo figlia dei vecchi legami tra la Bulgaria di Zhivkov e l’URSS su di un piano ideologico-politico, ma poggia su di un eloquente piano economico. Giocare solo sul campo europeo occidentale ed ignorare dunque i piani della Russia di certo non avrebbe giovato alle relazioni con quest’ultima.

In ogni caso, questa sorta di “doppio gioco” internazionale non era – ed è tutt’ora – così facile da gestire come può apparire a parole, e per un semplice motivo: il caro, vecchio e sempre troppo stretto vincolo di bilancio. E’ ovvio che un Paese che divide le proprie forze tra tre diversi progetti dispendiosi debba avere la possibilità strettamente economica per poter mantenere gli impegni presi, ed è di conseguenza lecito chiedersi se la Bulgaria la avesse davvero oppure no. Già dalla metà del 2008, numerosi analisti si sono posti la questione, e lo stesso ha fatto il leader dell’opposizione della formazione conservatrice “GERB” (“Cittadini per lo Sviluppo Europeo”) Boiko Borisov, che ha fondato buona parte della sua campagna elettorale sul mantenimento di una politica energetica europeista, senza sprechi e concentrata solo su progetti effettivamente realizzabili. L’allontanamento dai grandi progetti internazionali russi veniva proposto come un metodo importante per frenare l’emorragia di fondi che stava letteralmente distruggendo le finanze statali. I costi elevati di questi impegni si erano ripercossi inesorabilmente sulla tassazione e sulle tasche dei cittadini, che non li vedevano di buon occhio anche per questioni legate all’impatto ambientale.

 

Una volta vinte le elezioni, il nerboruto Borisov, per tenere fede alle promesse fatte agli elettori, dall’ottobre del 2009 si impegnava a rallentare la partecipazione bulgara agli accordi con la Russia nei tre progetti citati. A quanto trapelato da alcuni cablo diplomatici, pare che già a settembre 2009 Borisov avesse chiesto supporto agli USA per curare una exit strategy dalla dipendenza energetica dalla Russia: gli Stati Uniti aprirono in quell’anno in Bulgaria una rappresentanza del loro Ministero dell’Energia, onde monitorare meglio e da vicino la situazione.

Il tentativo di svolta di Borisov può essere spiegato con diverse ragioni. In primo luogo, egli voleva dimostrare di allontanarsi non solo a parole dalla politica del governo precedente anche sul piano più strettamente ideologico: uscire dall’orbita russa avrebbe dato alla Bulgaria una “reputazione” maggiormente occidentale, onde facilitare ulteriori operazioni di integrazione con l’Unione. Inoltre, scrollarsi di dosso l’aria di un Paese “ancora socialista” legato a Mosca veniva vista come una priorità, come hanno – in maniera più o meno ideologicamente violenta – fatto altri Stati ex-Patto di Varsavia. In secondo luogo, vi erano anche delle basi economiche plausibili. Data la difficile situazione economica bulgara, concentrarsi sul Nabucco poteva essere una via utile, viste le sinergie del progetto con delle infrastrutture già esistenti: il 41% del percorso del Nabucco in Bulgaria si affianca a tubature già funzionanti, ed inoltre si potrebbe congiungere facilmente al deposito di Chiren ed al complesso di Kozloduy. Il South Stream non fornisce questi vantaggi, e spostandosi verso gli altri progetti i dubbi non latitano. Per quanto riguarda l’impianto di Belene, dopo il ritiro della RWE avvenuto il 28 ottobre 2009, il progetto si faceva economicamente troppo pesante per la Bulgaria, mentre sullo sfondo le proteste dei cittadini continuavano; inoltre, per l’oleodotto di Burgas si faceva avanti l’ipotesi di lavorare a fondo sulle valutazione di impatto ambientale prima di procedere oltre, senza dimenticare che le perdite di guadagni dal settore turistico causate dalla costruzione della condotta avrebbero di certo spiazzato i guadagni provenienti dalla costruzione della stessa. In questo periodo da Sofia non si temevano particolari rappresaglie russe. Mentre sul finire del 2009 i rappresentanti UE visitavano Sofia sempre più soddisfatti, dal Cremlino arrivavano i primi segnali di come gestire il cambiamento di rotta, tra i quali le ipotesi di scartare interamente la Bulgaria a favore della Romania per il transito del South Stream ed un vincolo per il rinnovo dei contratti di fornitura gas legato ad una risposta definitiva in tema di supporto ai progetti energetici. Lo stallo è durato per l’intero primo semestre del 2010, con la Bulgaria che continuava a temporeggiare pur sapendo di non avere alternative valide, mentre la Russia rimaneva salda sulle sue posizioni, agendo anche unilateralmente nel caso Belene, continuando a ordinare materiali di costruzione nonostante l’alt di Sofia. La situazione energetica ha ripreso a muoversi dall’ultimo trimestre del 2010 quando, dopo la proposta di un lieve sconto sulle forniture di gas da parte di Mosca, il Premier Borisov ha incontrato Putin a più riprese per poi firmare l’accordo per una joint venture per la gestione del tratto bulgaro di South Stream. Non solo: dopo che Borisov aveva dichiarato al pubblico l’importanza della costruzione dell’impianto di Belene, la Bulgaria ha firmato un accordo con la Rosatom, la finlandese Fortum ed il consorzio francese Altrava per il finanziamento dell’impianto nucleare. In questo frangente, il 20 febbraio 2011, tramite un comunicato stampa, la Rosatom comunicava inoltre che si sarebbe sobbarcata gli interi costi del progetto pur di accelerarne il completamento, sollevando dunque la Bulgaria da un grave onere economico. L’unico progetto ancora pendente è quello dell’oleodotto: dopo la minaccia di ritiro delle compagnie russe, da Mosca è venuta la richiesta di compensazione se a Sofia non si prenderà a breve una decisione certa sul futuro del progetto.

 

Mentre sono dunque ancora aperti tutti gli interrogativi sul futuro energetico della Bulgaria, rimangono da fare alcune riflessioni.

In primo luogo, il tentativo di de-russificazione della politica energetica di Borisov non si può considerare riuscito. Il suo Paese è ancora legato a Mosca con due progetti su tre, nonostante alcune piccole aperture del Cremlino. Di conseguenza, le concessioni della Russia si spiegano con il suo interesse ad accelerare i progetti, nell’ottica di concorrenzialità e spiazzamento dei piani del rivale Nabucco; la “gentilezza” fatta nei confronti dell’impianto di Belene diviene più chiara invece pensando al fatto che è servita a tenere lontano lo spettro dell’americana Westinghouse, evocato in maniera non ufficiale da Borisov e soprattutto auspicato dall’Ambasciatore statunitense a Sofia Jonathan Beyrle – stando a quanto traspare dalle rivelazioni di Wikileaks. Non si dimentichi inoltre che, sempre sulle base di queste rivelazioni, pare che ad alcuni personaggi dell’establishment bulgaro fosse molto gradita anche la Areva, onde favorire la captatio benevolentiae nei confronti di Bruxelles. E’ comunque rilevante notare come il cambio di leadership a Sofia abbia risvegliato gli interessi statunitensi, dando a Washington nuove speranze – in parte poi ovviamente sopite, visto lo sviluppo dei fatti – per conquistare un ulteriore tassello nell’accerchiamento strategico della Russia.

Infine, non resta che chiedersi quale potrà essere il futuro della politica energetica bulgara: le previsioni non sono facili, ma sembra che, seppur con molte lentezze, il Paese rimarrà ancora diviso tra UE e Russia senza poter ormai fare a meno di nessuno dei due ingombranti interlocutori. La linea non eccessivamente dura di Mosca potrebbe aver raggiunto l’obiettivo di mantenere, almeno parzialmente, la Bulgaria nella propria sfera di influenza: possibili variazioni di questo status quo potrebbero giungere con l’evoluzione del progetto Nabucco e dunque quando la Bulgaria potrà godere davvero di un mezzo di approvvigionamento alternativo, pur sapendo che dal punto di vista nucleare la Russia rimarrà ancora a lungo l’unico interlocutore.

Quello che è più sicuro – o meglio, meno incerto – è che da Sofia dovranno impegnarsi ancora per soddisfare due interlocutori contrastanti, tutto questo a scapito delle finanze statali, del mantenimento delle promesse fatte agli elettori e di conseguenza della stabilità politica del Paese.

 

 

 

 

*Giuliano Luongo collabora come analista per il progetto “Un Monde Libre” della Atlas Economic Research Foundation

 


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